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La conquista di Marte

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Sailors fighting in the dance hall

Oh man! Look at those cavemen go

It’s the freakiest show

Take a look at the Lawman

Beating up the wrong guy

Oh man! Wonder if he’ll ever know

He’s in the best selling show

Is there life on Mars?

David Bowie Life on Mars

Lo scorso 18 febbraio la Nasa ha pubblicato le immagini delle manovre di atterraggio del Perseverance sulla superficie di Marte per iniziare la ricerca di tracce di vita sul pianeta.

Il Pianeta rosso, al momento, ospita due grossi rover, oltre i mille chili e con dimensioni di un grosso suv, entrambi della Nasa. Uno è lì da un decennio, Curiosity, e l’altro, Perseverance, è appena arrivato ed è il primo tassello, fondamentale, dell’operazione Mars Sample Return, che porterà pezzi di suolo marziano da analizzare nei laboratori terrestri.

La colonizzazione di Marte è una grossa sfida, manca: l’aria, l’acqua e il cibo, ma la hybris dell’uomo non si ferma davanti a nulla. Sulla terra ci stiamo stretti? Forza cerchiamo altri spazi. La volontà di conquista è forte e la si evince dalle storie che l’uomo racconta che  rivelano a volte inconsciamente a volte no; le nostre paure, i nostri sogni, il nostro eroismo ma anche la nostra arroganza.

Una a caso; nel 2014 il romanzo di Andy Weir L’uomo di Marte vede il protagonista, il botanico Mark Watney, riuscire dopo innumerevoli tentativi a coltivare patate nel terreno duro e rosso del Pianeta.

Insomma, vivere su Marte è ancora impossibile, ma la ricerca e le esplorazioni avanzano e il desiderio è tanto. La  scienza espressione della cultura umana che piega al suo volere la natura va avanti a colpi di machete e disbosca foreste per insediarvi orti, pozzi, capanne/ case esattamente come è sempre stato e pare che sempre sarà.

Ma vogliamo chiederci a livello simbolico cosa significhi in questo periodo il bisogno vero o indotto che sia di colonizzare Marte? Perché cerchiamo sempre nuove terre da colonizzare e non ci guardiamo dentro dove ci sarebbero, volendo, ben altre imprese da compiere? 

Nel Rinascimento alcuni individui di genio si dedicarono ad una esplorazione del mondo interiore  ardita e rivoluzionaria tanto quella che avveniva in quegli anni nel mondo esterno dei grandi navigatori.

Questi pensatori esaminando la vita interiore scoprirono isole, passaggi e canali, a volte continenti, tracciarono mappe, escogitarono metodi, ma anche allora le loro ricerche godettero di meno fama di quelle degli esploratori di nuove terre. Vuoi mettere Cristoforo Colombo che conquistò un continente con così tanti beni da trafugare che fermarsi a interpretare i sogni o guardare alla nostra anima?

Eppure quegli esploratori dell’interiorità ai nostri tempi potrebbero ridarci il senso di dove siamo, di dove siamo venuti, delle strade giuste da prendere se vogliamo raggiungere luoghi fertili e inesplorati. Non già  luoghi esterni ma territori  abbandonati dell’anima.

Fra questi esploratori il più grande maestro fu Marsilio Ficino, che si rivolse all’astrologia per cercarvi e trovarvi i simboli della vita interiore; dei suoi travagli e delle sue trasformazioni, dando forma ad un’arte dell’immaginazione, che egli riteneva la medicina appropriata per l’anima sofferente.

Ficino ci metteva in guardia dal Pianeta rosso;  le manifestazioni  del dio sono: collera, violenza, odio, aggressività di ogni genere, durezza ma anche eroismo.

Infatti;  Ficino sapeva bene che dopo aver affrontato tutto il potenziale negativo di un dio possiamo permetterci di accogliere tutto il potenziale dell’altro lato;  e constatare che spesso la sua irruenza si rivolge a scopi meno distruttivi ma più creativi.

Attualmente la guerra e la violenza sono ancora diffuse e perseguite con una arroganza da minacciare la nostra stessa esistenza e il nostro eroismo lascia alquanto a desiderare.

La collera e l’intolleranza la fanno da padrone, non solo nell’odio tra nazioni ma anche  nelle situazioni domestiche;  dove ogni giorno sposi, genitori, innamorati, amici e vicini impazziscono colpiti da improvvisi attacchi di collera, posseduti da Marte in maniera tale da essere trasformati in creature folli.

Se prima di conquistare Marte e piegarlo alla volontà di cultura riconoscessimo  la nostra aggressività, il nostro desiderio di predominio e la nostra arroganza faremmo inevitabilmente i conti con quel pianeta roccioso la cui superficie è stata modellata da vulcani, impatti di meteoriti e venti violentissimi, e gli potremmo attribuire un posto simbolico nel pantheon della nostra psiche traendo dal suo fuoco e dalla sua rabbia: fuochi creativi e rabbie costruttive.

Scrive Ficino:

“Marte è superiore di fortezza, perché egli fa gli huomini più forti. Venere doma Marte, imperò che quando Marte nella natività dello huomo signoreggia, dona magnanimità e iracundia, e se Venere proximamente vi si aggiunge, benché non impedisca la magnanimità da Marte concessa, nientedimeno raffrena el vitio della iracundia, ove pare che, facendo Marte più clemente, lo domi.”

Nella mitologia Marte e Venere sono amanti e insieme si uniscono e hanno una figlia: Armonia. Armonia sposò Cadmo e vissero insieme fino alla vecchiaia e si dice che  il loro fu l’unico matrimonio in cui furono invitati tutti gli dei, nessuno escluso.

Marte è forte e spacca la psiche permettendo a desideri, stati d’animo, sentimenti e pensieri di sostenere il conflitto.

Venere è la grande madre ereditata dalla tradizione neolitica; nuda e sontuosamente voluttuosa è la dea creatrice trasformata nel tempo nella più banale dea dell’amore.

Armonia, la figlia, non è una soporifera mescolanza tra i due ma somiglia piuttosto alla corda tesa di una lira; è la tensione fra i due poli prodotta dalla loro forza contrapposta, non dalla loro mescolanza

Riconoscendo, quindi, la nostra aggressività e tenendola in tensione con Amore potremmo   abbandonare la nostra hybris di conquistatori di mondi esteriori per rivolgerci all’interiorità e trovarvi lì:  Armonia.

Marte e Venere sono pianeti ma non sono solo fuori di noi ma anche dentro di noi; ciò che dobbiamo trovare non è una natura altra dall’umano , ma il tessuto fine di relazioni che ci lega all’ossigeno, all’acqua , ai pesci nell’acqua e persino ai pianeti nel cielo.

Pensare per opposizione tra natura e cultura è solo una delle molteplici possibilità di pensare all’ambiente.

Il totemismo e l’animismo, per esempio,  risultano più attenti alle relazioni e alle possibilità di vivere nella tensione tra due opposti.

In questi tempi di transizione sarebbe un errore madornale continuare a pensare nei termini di una rigida opposizione tra natura e cultura; una cultura trionfante  e una natura da conquistare e da domare. 

Siamo fatti di polvere di stelle  il piccolo è uguale al grande, i pianeti del cielo sono anche dentro di noi. Lo dicevano già i filosofi che precedevano i telescopi; non era necessario vederli i pianeti per sentirli risuonare del medesimo ritmo del nostro cuore, figurati se era necessario conquistarli.

Sogni Contagiati

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Il mondo “non sarà mai più lo stesso” quante volte l’abbiamo sentito ripetere? E’ accaduto all’indomani dell’11 Settembre, dopo la recessione del 2008-2009 e dopo la crisi dei rifugiati nel 2015.Più recentemente  il covid 19 ci ha costretti ad un lockdown che ha minato dalle fondamenta il pianeta così come era; il mondo globale è parso crollare. Sulla traccia del pericolo le frontiere si sono chiuse, gli italiani  hanno cantato l’inno nazionale sui balconi chiudendo, però, la porta agli altri paesi così vicini fino al mese prima. A dicembre 2019 bastavano 19 euro e ci trovavamo a far merenda ad hide park o a fare shopping sugli Champs Elysées a Parigi,  il 25 dicembre si poteva andare nella casa di Babbo Natale in Norvegia prima che i bambini aprissero i regali che lui aveva portato. Chiusa anch’io come tutti nel ristretto mondo del mio quartiere ho pensato che il pianeta non era più lo stesso:. si era ristretto. Attonita e con gli occhi sbarrati dallo stupore ho continuato il mio lavoro da remoto con gli expat; i nuovi migranti italiani che grazie al villaggio globale portano il loro sapere e la loro genialità lontano dall’Italia che li paga così poco.Sono bastati pochi giorni per accorgermi di un evento nuovo e sensazionale: gli abitanti del mondo chiusi in casa, e se non chiusi in casa minacciati da un pericolo incombente, stavano vivendo un evento uguale per tutti.  Con sorpresa mi sono accorta che la caduta del villaggio globale aveva reso maggiori le distanze fisiche ma non quelle psichiche: tutte le mamme si trovavano ad inventare giochi e a sedare paure non più immaginarie, i padri comparivano finalmente nella vita dei figli, i single facevano meditazione e i fidanzati amoreggiavano on line.Il covid aveva colpito tutto il pianeta e i giornali hanno iniziato a parlare di pandemia.; il dio Pan, “tutto” ha sottolineato la connessione di tutti con tutti. A New York come a Londra, come a Copenaghen i vicini di casa, stranieri sino al giorno prima, sono diventati amici di prigionia. 

E così è successo che tutti hanno iniziato a sognare, sogni diversi ma simili nel contenuto.  La paura del contagio ha preso la forma della paura di invasione: degli zombi ciechi camminavano per le strade deserte e senza sole, una persona sconosciuta forzava la porta di casa, uno tsunami  avanzava minaccioso cercando di raggiungere delle case rosa arroccate su una collina. La paura dell’invasione viaggiava vicino all’interrogativo di: “chi sono ora?” e “dove sono?” Tutti  cercavamo una via di ritorno o una via d’uscita, qualcosa di solido, qualcosa su cui poter contare per dare luce, speranza e senso dell’orientamento mentre ci muovevamo in territori oscuri.Pieni di domande ad un tratto abbiamo iniziato a incolpare i vicini, il governo, la Cina e Trump: maniaci ci inseguivano e gli Zombi comparivano tra il letto e il divano in quella quiete domestica che ci sembrava inattaccabile.  Gli archetipi dell’umanità incominciavano a mostrare come eravamo non solo connessi in rete ma anche nel nostro immaginario più profondo.In una etnia del Gabon nord-orientale, nel villaggio di Mèkouka, la comparsa dell’Ebola è stata attribuita alla presenza di un ezanga, che nella lingua bakola significa “vampiro” o “spirito maligno”; gli esanga sono spiriti cattivi che provocano le malattie in quegli individui che hanno accumulato ricchezze senza condividerle con la comunità Dopo un pò come se si fosse verificata una sorta di terapia collettiva la minaccia non è più arrivata da fuori ma da dentro come se il covid persecutore non stesse più fuori nel pericolo del contagio; crollavano tetti, si chiudevano pareti e pavimenti si sbriciolavano sotto i nostri piedi come biscotti. Il covid non ci attaccava più da fuori ma dava una scrollata alle fondamenta della nostra individualità: ci attaccava da dentro, e sembrava colpire la nostra hybris di esseri umani  approfittatori di ciò che è naturale.Verso il finire della primavera e l’inizio dell’estate hanno incominciato ad emergere  elementi forieri di possibilità fino a quel momento inimmaginabili; vere e proprie storie che cercavano un inizio: “prima del covid” una trama “durante il covid” e iniziavano ad immaginare una fine e un nuovo inizio che tenesse conto dei bisogni umani.Micol scienziata in Danimarca ha sognato che c’erano dei palazzi distrutti, ed era successo prima del covid, però ora in cucina stavamo preparando una cena con delle bucce di patate avanzate.Davide  giornalista a New York sogna che il sole stava sorgendo dalla parte opposta.Antonella torna piccola: “Ero sul divano e intorno a me c’era un guerra con scoppi e bombe e qualcuno mi dice che mi va bene che sono su zoom se no tutti se ne accorgerebbero che sono senza un calzino…ma ero felice e libera senza scarpe e con il moccio al naso.”Abbiamo bisogno – ricorda M. Di Renzo-di nuove possibilità, di atteggiamenti meno contrapposti, di una visione che includa Oriente e Occidente (il sorgere e il calare del sole) in una naturale successione di accadimenti fisici e psichici, abbiamo bisogno di stagioni che segnino il tempo, abbiamo bisogno di includere la morte nella visione della vita e non come conseguenza di fallimenti o di sciagurate scelte politiche, Abbiamo bisogno di umiltà e di sacro rispetto a ciò che ci trascende (Babele. Speciale Covid-19, 2020, p.8). Forse non l’abbiamo percepito ma per la prima volta nella storia del mondo abbiamo sognato tutti assieme e per lo meno nel mondo invisibile ed etereo del sogno abbiamo cercato di trasformarlo questo mondo.  Una moltitudine di inconsci al lavoro si affaticava a trovare un senso e a ricominciare.In verità ci dicono sin da bambini che la realtà è diversa dai sogni eppure se di tutta quell’energia trasformativa ce ne facessimo qualcosa beh, forse qualcosa potrebbe cambiare.

Non di sola psicoterapia

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La vita quotidiana è piena di avvenimenti frustanti, tentiamo di prendere l’autobus e riusciamo a perderlo, alla riunione il capo ufficio pare avercela con noi e non riusciamo a concentrarci. Nella pausa pranzo il nostro partner pare non ascoltarci, e poi alla sera in famiglia tutti sembrano parlare linguaggi incomprensibili; e non parliamo poi di quei drammatici momenti in cui si perde il lavoro, oppure, peggio ancora si va incontro ad una separazione coniugale.

E se un evento traumatico ci colpisce? Se accade che non amiamo più il nostro partner o una persona cara muore, o noi stessi abbiamo un incidente?

Nel passato il trauma era la fonte della nostra creatività, l’evento che ci faceva crescere e che ci conduceva verso l’individuazione, verso la ricerca del nostro senso e del nostro scopo, e la poesia, la letteratura, l’arte hanno avuto origine dal trauma trasformato in qualcosa d’altro.
Attualmente invece appena il dolore bussa alla nostra porta, andiamo da uno psicologo o da uno psicoterapeuta e cerchiamo nella diagnosi la nostra identità; sindrome da ansia generalizzata, se sentiamo paura di vivere, ansia sociale per definire un carattere introverso, libera ansia fluttuante di fronte alla precarietà dell’esistere.

Parliamo di attacco di panico se all’improvviso “nel mezzo del cammino della nostra vita” ci troviamo a fare i conti con la morte, grande rimosso della nostra società. Sembra che in qualche modo, la sofferenza sia diventata patologica, soffri? sei malato, hai angoscia? devi essere curato.

Non si prende mai in considerazione che la sofferenza, che incontriamo nel nostro percorso di vita, non è necessariamente una patologia e non richiede per forza una medicalizzazione psicoterapica.
Soffrire infondo non è che il sintomo della nostra vulnerabilità di uomini, e secondo Hillmann nel libro “La vana fuga degli Dei” le divinità si mettono in contatto con noi attraverso il nostro trauma.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” diceva Ungaretti nella sua metafora sulla caducità della vita, era libera ansia fluttuante?
Certamente era una maniera sublime di esprimere il disagio, un modo sublime ma indubbiamente anche terapeutico.

Nella società attuale l’esigenza di funzionare al meglio non lascia spazio per il disagio esistenziale, che diventa patologia, si è sani se si è conformi altrimenti si corre dallo psicologo oppure s’intraprende una psicoterapia cognitivista o comportamentista.

Frank Ferudi afferma che la patologizzazione delle esperienze umane risponde all’esigenza di omologare gli individui.

L’imperativo terapeutico che si va diffondendo promuove non tanto l’autorealizzazione, quanto l’autolimitazione.
Infatti, postulando un sé fragile e debole, implica che per la gestione dell’esistenza sia necessario il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche. […] È allarmante che tanti cerchino sollievo e conforto in una diagnosi.
Si può individuare, nell’istituzionalizzazione di un’etica terapeutica, l’avvio di un regime di controllo sociale. […] La terapia, infatti, come la cultura più vasta di cui fa parte, insegna a stare al proprio posto. In cambio offre i dubbi benefici della conferma e del riconoscimento.
F. Furedi, “Il nuovo conformismo” (2004), pp 29, 248

James Hillman invece in Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, sostiene che le psicoterapie si propongono di adattare l’individuo a una società che genera malessere e finiscono per generare ulteriore malessere nell’individuo e nella società.

Non si vuole qui negare l’utilità della psicoterapia.
La terapia aiuta quando non si funziona più quando le nostre paure ci invalidano e ci impediscono l’autonomia. Ma cosa c’è sotto quella paura? Qual è il demone o l’archetipo che giace nell’ombra?, e inoltre perché far sparire il sintomo?

James Hillman dice:

“la psicologia ritiene che ogni sintomo non è altro che il modo sbagliato di esprimere la cosa giusta”

“Assecondate i vostri sintomi […] poiché di solito nel caos c’è il mito, e il caos è un’espressione dell’anima”

Diceva Rilke a proposito

“Non voglio che siano eliminati i dèmoni, perché si porterebbero via anche gli angeli”

L’approccio della psicoanalisi alla malattia e al sintomo è sicuramente diverso dalle psicoterapie comportamentiste o cognitiviste.
Per la psicoanalisi l’essere conformi è il tratto tipico della malattia, e per la psicoanalisi, è proprio l’obbligo di essere conformi ad una società ormai “malata” che crea il disagio esistenziale e le varie categorie diagnostiche, che vengono poi catalogate nel DSM.

Psicoanalisi, patologia, psicoterapia e filosofia

 

Sebbene questo sia l’assunto teorico, però la psicoanalisi si situa fuori dal contesto storico, essa basa la sua indagine nella patologia e nella biografia, mentre oggi sono la geografia e la storia a “rubare” l’anima, e a creare paura ed angoscia.
Attualmente gli individui sono sempre apparentemente vicini, si può avere un proprio caro in un altro continente e vederlo, attraverso Skype, tutte le sere, in poche ore si vola da una città all’altra e la geografia e la storia mutano ad una velocità vertiginosa. La nostra visione del mondo finisce per rimane troppo angusta, se si ripiega sulle nostre angosce infantili.
Comprendere il mondo in cui viviamo e chiarire la nostra visione del mondo, può aiutarci a reperire un senso alla nostra vita. Il senso che noi diamo al nostro vivere e al mondo sono responsabili del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire.
Ma la ricerca di senso non è una faccenda di psicoterapia ma è una faccenda da consulenza filosofica.

La filosofia nasce in Grecia, nel V secolo a.c. e nasce proprio come pratica di vita.
Tali erano le scuole filosofiche greche, prima che la filosofia, si disinteressasse della vita e divenisse solo conoscenza teorica.

Il “bisogno di filosofia” è dettato dalla persuasione, come dice Platone, che “una vita che non mette se stessa alla prova, non è degna di essere vissuta“; e per chi ha simili aspirazioni l’incontro con la consulenza filosofica potrebbe essere l’occasione che lo differenzia, che lo porta all’altezza della sua vita nell’ottundimento del mondo.

A raccomandarlo è lo stesso Kant, che in proposito scrive:

Spetta al filosofo prescrivere una dieta per l’anima. […] per questo il medico non dovrebbe negare al filosofo un suo intervento, se questi talvolta tentasse l’impegnativa cura della pazzia.

La ricerca del senso è una faccenda filosofica mentre in analisi si impara a saper ricordare veramente, a saper liberare la fantasia, ma soprattutto a saper trovare le parole per le cose invisibili.

La filosofia aiuta a ritrovare il “senso“, la psicoanalisi a ritrovare “Le parole per dirlo” (titolo del libro di Marie Cardinal) e a liberare quella che Hillman chiama la “psiche poetica“.
Le parole per dirlo è una storia tutta al femminile di un’analisi. È attraverso l’analisi che Marie riscopre la vita e ritrova la felicità ed è attraverso l’analisi che svela il talento del quale era stata dotata sin dalla nascita: la scrittura.

Gli psicoanalisti sono stati scrittori e i pazienti a volte si ritrovano scrittori o almeno se non proprio scrittori riescono a riscrivere la trama della loro vita. Le storie cliniche che i pazienti raccontano, trasformate in narrativa danno sollievo da ansie ed angosce ma anche il processo inverso leggere e ritrovare le stesse ansie e angosce nei libri di narrativa aiuta.

All’interno della stanza di analisi il paziente tesse la sua storia, storia che da sollievo a raccontarla e che da sollievo sentire che è già stata raccontata magari seicento anni fa.
La psicologia, a mio avviso, dovrebbe prendere l’avvio non dalla fisiologia del cervello o dalla struttura del linguaggio, o dall’analisi del comportamento ma dalla narrativa, dalle biografie in ultima analisi dalle storie.
È strano come agli psicologi il cui lavoro consiste nell’ascoltare storie, non venga insegnato su come la gente racconta storie, con l’aiuto della letteratura, del giornalismo e persino dei verbali dei processi.

L’esperienza creativa fa parte delle normali facoltà e modalità della persona; e oltre alla scrittura e la filosofia anche la pittura e il disegno aiutano ad esprimere sentimenti ed emozioni inesprimibili.
Jung riteneva che la creatività fosse un istinto primario e che la nevrosi venisse generata da un blocco di questo impulso e la psicoanalisi junghiana privilegia l’attività artistica come fulcro di qualsiasi guarigione.

L’ipotesi che la mente umana sia strutturata secondo “forme a priori“, gli archetipi, induce gli psicologi di matrice junghiana a scrutare le immagini nelle quali questi archetipi si incarnano, per sondare il vissuto psichico più profondo e i concetti fondamentali di rinascita e di trasformazione.
Lo psicoanalista di Pollok, considerava l’itinerario creativo dell’artista come uno sforzo di rinascita.

L’arte permette un’espressione diretta, immediata, spontanea, arcaica e istintiva di noi stessi che non passa attraverso l’intelletto e quindi può essere utilizzata per esprimere, attraverso il colore e il disegno, l’immagine interna, che diventa a questo punto immagine esterna visibile e condivisibile.
Nel disegno si possono rappresentare i nostri mostri e con il colore si manifestano i nostri stati d’animo.
Da sempre la malinconia è nera, il quadro Melacholia di Durer, simbolicamente rappresenta, in termini alchemici, le difficoltà che si incontrano nel tentativo di tramutare il piombo (anime delle tenebre) in oro (anime che risplendono), lo stato d’animo vitale e appassionato si tinge di rosso, il bianco ci rimanda a quella rinascita di cui parla la psicologia junghiana, e vediamo, nel quadro di Chagall, due bianchi sposi librarsi liberi sopra i tetti delle case.

Chi sta male, quindi, non sempre deve ricorrere alla psicoterapia e far tacitare i suoi sintomi, si può trovare sollievo anche nelle arti o nelle consulenze psicologiche che lavorano utilizzando tecniche artistiche.
Noi psicologi e psicoterapeuti dovremmo, forse, ascoltare di più al di là di scuole, associazioni e metodi e capire “il bisogno” della persona che cerca aiuto.

Le contaminazioni tra una disciplina e l’altra permettono di cogliere meglio le sfumature dell’animo umano di non perdere “l’origine dell’anima” che è immutabile dalla notte dei tempi, perché un adolescente di oggi può ritrovarsi nei dolori del giovane Werther, mentre un giovane uomo inquieto e desideroso di un altrove, può desiderare di andare oltre le colonne d’Ercole, come un nuovo Ulisse.

Sentire che i nostri malessere, le nostre angosce non sono solo sentimenti che sentiamo noi in quanto diversi ma che appartengono all’animo umano da sempre, ci fa sentire facenti parte del tutto.
Si va in psicoterapia perché ci si sente diversi ed è legittimo voler essere come tutti gli altri, ma esistono molte altre strade per chi vuol essere semplicemente se stesso.

Hugo Simberg, L’angelo ferito 1905-1906

Depressione: Beatrice e la nike

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Fuori fa freddo, è un giorno d’inverno sospeso nella nebbia, un attimo prima che le luci di natale incomincino ad illuminare la città.
Beatrice viene da me perché lamenta ansia, mancanza di energia e di benessere, accusa un calo vitale, sensi di colpa, svalutazione.
Ma ciò che l’ha condotta a sedersi lì è il fatto che si è appena sposata e non sembra provare amore, per lei questo “freddo dentro” è il peso più difficile da portare.
Fantastica di grandi storie d’amore, di forti passioni, ma con il marito una tiepida prima notte di nozze dove non sono riusciti neanche a far l’amore.

Hillman descrive molto bene la depressione “le caratteristiche della depressione costringono all’interiorizzazione: movimenti attuiti, testa pesante e occhi bassi; lentezza nel parlare; scarsa energia; poca concentrazione e incapacità di prendere decisioni e di agire; colpevolezza e fissazione sul passato; vergogna e senso di colpa; lievi, persistenti disturbi fisici; costipazione e cefalea; pensieri di morte, abbandono e miseria; pessimismo e paura del futuro; generale avversione per il mondo circostante e sopra ogni cosa un sottofondo di tristezza:

“Quando alla sera si fa buio e io sono lì in cucina, la cucina d’acciaio illuminata da una luce fredda riflette il mio viso, e mi sento terribilmente angosciata”

“Mi sento estranea al mondo, incapace di continuare a vivere e incapace di morire”

“Alla domenica sera, soprattutto, mi sento particolarmente male, ho come la sensazione che tutti stiano tornando da giornate felici e intense, solo per me la domenica è passata, lasciando un grande vuoto”

In questo periodo Beatrice sogna di essere in macchina:

“Avevo lo specchietto retrovisore appannato e mi rendevo conto che non potevo più andare avanti senza riuscire a vedere dietro”

Beatrice ha 30 anni, ha vissuto sempre sola con la mamma, perché il papà morì quando lei aveva quattro anni.
Il padre fu colpito da un attacco cardiaco, un giorno d’inverno, poco prima di natale.
Bea, così la chiamano in casa, si è sempre sentita infelice e brutta e sempre paragonata ad una cugina di nome Angelica

“Angelica, sì che aveva tutto”

Del padre non ricorda nulla e raramente mi parla di lui, non sembra neanche averne sentito la mancanza.

Lentamente, sentendosi ascoltata Beatrice incomincia ad elaborare la perdita del padre senza esserne avvolta e travolta.
Riesce, con fatica, a ricostruire cosa avvenne quel giorno.

“Ero piccola forse tra le braccia della mamma.
Faceva freddo e c’era un albero diverso da quelli che già conoscevo.
Era, ne sono certa, un salice piangente, qualcuno ci chiamò…”

“Ecco io non ricordo più nulla, ricordo solo una bella casa di montagna, forse mi mandarono là per allontanarmi da mamma, mamma non voleva vedere nessuno”

” Mi hanno raccontato poi che si è chiusa in una stanza e da lì non è più uscita per settimane…”

“Papà era alto, molto alto.
Mi ricordo di avevo pensato che non poteva essere sparito in un sol giorno un uomo così grosso”

Molte volte le persone che sono colpite da una prova dolorosa, tendono a tenere in sè la loro tristezza, in realtà i contenuti psichici trattenuti senza la piena consapevolezza ingigantiscono nell’animo dell’individuo e generano angoscia.

“Ho fatto un sogno buffo, che non vuol dir niente; ho sognato un paio di scarpe da tennis su un tavolo da cucina di marmo bianco, le scarpe erano delle nike”

“E il tavolo che cosa le ricorda?” le chiedo io.

“I marmi bianchi delle statue in Grecia” risponde Beatrice.

Nike è il nome di una multinazionale americana che fabbrica scarpe da tennis, ma è anche il nome di una statua greca priva di braccia e di testa.
Le dico che forse lei può sentirsi come la nike, come una statua dell’antichità a cui manca un braccio o una gamba oppure la testa, cioè c’è una mancanza, che priva l’insieme di una sua completezza.

“L’immagine penetra”, scrive Trevi, “dove il pensiero non può giungere e riflette ciò che il pensiero, per conservare la sua integrità, deve necessariamente escludere dal suo campo visivo alternativa al pensiero, l’immagine tuttavia lo sollecita e spesso lo precede…”
Attraverso questo sogno Beatrice prende coscienza dell’enorme vuoto lasciato dal padre, Beatrice si permette finalmente di piangere e inizia a vivere il dolore non più come alimento per il senso di colpa, ma come nuova possibilità di relazione e di arricchimento.
Jung scrive: “Una sofferenza incompresa è notoriamente difficile da sopportare e, d’altro canto, è spesso sorprendente vedere che cosa un uomo può sopportare se ne comprende la causa e il fine.
L’uomo sofferente non trova mai aiuto nelle sue proprie elucubrazioni, ma soltanto nella verità sovrumana, rivelata, che lo solleva dalla sua dolorosa condizione.
Dalla sofferenza della psiche deriva ogni creazione spirituale e ogni progresso dell’uomo spirituale”

“Ho sognato di aver portato a casa un gattino, che sembrava morto dal freddo e invece dopo averlo avvolto in calde coperte lo do a mio marito e il gattino si risveglia”

Beatrice sta meglio, dice di sentirsi più serena e consapevole.

So che la “guarigione è comunque provvisoria” e le sue certezze sono scritte sulla sabbia. Ma gli elementi di armonia, di bellezza e di verità che a tratti sono emersi, la fiducia che si possa essere amati e talvolta capiti, rappresentano un patrimonio inalienabile.

Statua di Atena Nike, Louvre Parigi

Che cos’e’ la Psicoanalisi? La capacita’ di ascolto in momenti di crisi

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Psicoanalisi

Spesso crisi matrimoniali, problemi adolescenziali, fobie, noia, depressioni somatizzazioni sembrano mettere in discussione gli aspetti più importanti della nostra vita, lasciandoci disorientati e privi di ogni sicurezza.
A volte, invece, si può star male anche perché si è diversi, non omologati.

Le persone normali sono sempre più emarginate e connotate come depressive solo per una attitudine riflessiva socialmente intollerata“.

Chi per esempio riflette sulla morte, unica certezza della vita, è qualificato nella nostra società, come malinconico e perdente.
In questi momenti le nostre difficoltà si fanno così forti, che non riusciamo a trovare dentro di noi e nelle persone che ci stanno accanto una risposta al nostro malessere, ci si sente incapaci di uscire da una certa situazione.

E allora, in un momento più triste degli altri, in un momento in cui si riconosce di non potercela fare da soli, si può chiamare uno specialista, sperando che ci aiuti a trovare il senso di quel malessere.

Che cos’è la Psicoanalisi? Paradossalmente è più facile definire che cosa “non” è la Psicoanalisi.

La psicoanalisi non da opinioni nè consigli, non fornisce informazioni nè punti di vista e tanto meno insegnamenti, non impartisce regole nè prescrizioni.
Nella nostra società siamo circondati da eccessi di suggerimenti, da eccessi di parole, di spiegazioni.
Siamo bombardati di precetti e principi e assediati da tentativi di persuasione e imposizioni di comportamento.
Il tentativo delle psicoanalisi è quello di ribaltare questa situazione vessatoria e lasciar spazio al silenzio e alla riflessione.

Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio,
se tutti facessimo un po’ di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire


La voce della Luna.

Con queste parole si conclude il film di Fellini.
La luna compagna di viaggio del protagonista è stata catturata dai suoi compaesani che in trionfo, hanno organizzato una chiassosa tavola rotonda, e a lui non resta che rovesciare nel pozzo la sua preghiera.

La psicoanalisi sollecita la riflessione, l’unico processo che garantisca una autentica presa di coscienza dei propri problemi e infonda il coraggio di affrontarli, perché è solo dentro di noi che possiamo trovare le risposte necessarie ai nostri dubbi, e alle nostre difficoltà.

Ognuno custodisce in sè il segreto della propria prosperità.
Dentro di noi si trovano, sopite, seppellite, trascurate, le risorse per la guarigione.
Una riserva meravigliosa di forze che spetta alla psicoanalisi rintracciare e recuperare.

È solo affrontando questa “discesa in se stessi” che ci si conosce veramente, che ci si interpreta, e quindi si capisce perché certe cose ci succedono, o perché abbiamo certi impulsi.
Riflettendo e dando significato a quanto stiamo vivendo possiamo attivare le nostre capacità intuitive e ascoltare le intermittenze del cuore, quelle rivelazioni improvvise, istantanee e inaspettate del senso delle cose che normalmente sfuggono alla nostra attenzione.

“È segno d’un’altra orbita tu seguilo”


(tratto da “Arsenio” di Eugenio Montale)

L’intuizione è una gioia, uno shock violento, un lampo di luce che squarcia, anche solo per un attimo, l’oscurità che ci avvolge, che permette di trasformare l’angoscia, riattivare antiche risorse e costruire nuovi equilibri.

La dott.ssa Daniela Brambilla nel suo studio di Milano ed in quello di Genova, utilizza le proprie capacità di ascolto, per aiutare a definire la natura del disagio, sia personale che di coppia.

La Voce della Luna – Federico Fellini

ATTACCHI DI PANICO: Martina sino alla fine del mondo

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Martina ha 25 anni, entra nel mio studio con passo deciso e con un atteggiamento da maschiaccio, indossa grossi scarponi, jeans e giubbotto di pelle.
Ha un enorme casco in mano, e inizia subito a raccontarmi della sua passione per la moto e poi del suo lavoro; è impiegata in una ditta di spedizioni.

“È stata la mamma a dirmi di prendere appuntamento con una psicologa, è lei, la mia migliore confidente, siamo sempre insieme.”

Martina abita in casa con i genitori e al piano superiore abita la sorella sposata con figlia. Sono un nucleo familiare molto unito e un po’ caotico, dove ci si scambia vestiti e confidenze.

“Mi metto sempre gli anelli di mamma, e Alice non trova mai le forcine per i capelli perché le uso io, ma come mi arrabbio, quando mia sorella mi prende le scarpe”

Alice è la figlia della sorella.
Spesso liti furiose turbano la quiete familiare e nascono conflitti che paiono irrisolvibili, ma che in realtà rientrano rapidamente.

Martina racconta che, sul lavoro, è stata colta da un violentissimo attacco d’ansia.

“Stavo spiegando ad un collega cosa doveva scrivere sui container prima dell’imbarco, le scritte riguardavano ciò che conteneva il container e la ditta d’appartenenza, e ne determinavano il destino nel senso che una volta identificati sarebbero stati smistati e mandati nei vari porti”
Si ferma, il viso, in genere solare, si fa triste
“… e all’improvviso mi sono sentita morire, non potevo più respirare, avevo paura, tanta paura”

“Sono stata portata al pronto soccorso e curata con un tranquillante. Ora vivo nel terrore che quel malessere possa tornare.”

Martina mi dice di sentirsi estremamente insicura, e di non poter fare a meno di chiedere alle persone come si comporterebbero al posto suo, alla fine ha tante soluzioni, che finiscono con l’aumentare il suo dubbio,

“Vivo perennemente nel dubbio”

Mi guarda e mi chiede cosa deve fare, e contemporaneamente dice:

“Non riesco a fare le cose per forza.”

Mano a mano che procediamo nel nostro lavoro, quasi magicamente scopre, che il contesto in cui si è scatenato l’attacco di panico, non è estraneo a come lei si sente, e al momento particolare che sta attraversando.
Scrivere sui container il loro nome, significava destinarli ad un porto, significava assegnare a loro un destino.
L’evento rimandava in qualche modo alla sua situazione psichica;
Martina si sente estranea a se stessa, non sa dove andare, non conosce la sua destinazione, ma contemporaneamente scegliere dove andare la terrorizza, perché dovrebbe abbandonare tutte le altre possibili scelte e insieme ad esse il rassicurante mondo dell’infanzia.

Pablo Picasso, 1933, Blanton Museum of Art ©Picasso Administration, Paris, France
Pablo Picasso, 1933, Blanton Museum of Art
©Picasso Administration, Paris, France

La consapevolezza della propria separatezza porta a una maggiore libertà; più libertà implica più scelta e più scelta comporta una maggiore responsabilità.

Scrive Silvia Veggetti Finzi “L’atto di scegliere evocando margini di libertà e di intenzionalità, istituisce il soggetto psicologico ma, al tempo stesso, lo confronta con un destino impersonale, dove scegliere ed essere scelto coincidono.”

Leggo a Martina una novella.

Si narra che, “quando un nomade arabo esitava a prendere una decisione, sceglieva tre frecce: su una scriveva “Il mio signore mi ordina” e sulla seconda “Il mio signore mi vieta“.
La terza non aveva alcuna scritta.
Egli riponeva le frecce nella faretra, poi ne prendeva una a caso e seguiva i suoi consigli. Se gli capitava la freccia dove non c’era scritto niente, ricominciava da capo l’operazione.”

Il non scegliere inteso a bloccare ogni anelito al movimento ha come obiettivo quello di fissare all’immobilità.
Il conflitto principale di Martina è proprio questo, non sceglie, procrastinando la scelta ha l’illusione di rimanere sempre bambina, felice e protetta, tra le braccia della mamma.

L’individuazione è un processo continuo, il cui scopo è la ricerca della totalità.
L’individuazione implica lo sviluppo di una sempre crescente consapevolezza dell’identità personale, che comprende sia le qualità positive, desiderabili, e gli ideali dell’io, sia le qualità che appartengono al dominio dell’Ombra.
Implica, inoltre, una sempre crescente consapevolezza della propria separatezza, dello sviluppo di se stessi come di una persona unica e completa, relativamente distaccata dalle proprie origini personali e sociali e tesa a scoprire i propri valori personali.
In scopi della psicoterapia, Jung scrisse che nei suoi pazienti cercava di far nascere uno stato psichico in cui essi iniziassero a sperimentare con la propria natura “uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza.”

Martina oppone resistenza, in qualche modo cerca di fermare il mondo, la vita le fa paura, ma anche il rimanere pietrificata le incute terrore e quindi è ferma, scegliendo ha paura di non essere le mille cose che avrebbe potuto essere.
Scegliendo sempre la freccia dove non vi è scritto nulla però finisce con il non essere le mille cose che avrebbe potuto essere.

Prendendo coscienza di ciò Martina sta un po’ meglio, dimentica la paura di avere nuovi attacchi di panico, ma si fa ogni giorno più malinconica.

“Vorrei ritornare all’infanzia, vorrei tornare in Sicilia, la casa che avevamo in Sicilia era fiorita, soleggiata era profumata di mare”

La malinconia è la sua compagna nella ricerca di sè ma piano, piano, Martina inizia a costruire una sua identità, quando è triste scrive poesie oppure disegna, qualche volta sogna.

“Ho sognato un liquido lattiginoso bianco, che lentamente si alzava verso il cielo. Ed io lo guardavo salire e pensavo che era bello anche se sapevo che era la fine del mondo.”

La fine del mondo è un simbolo diffusissimo, che rappresenta la caducità di tutte le cose, le quali, devono giungere alla loro fine e trasformarsi.

L’infanzia lascia spazio all’adolescenza, l’adolescenza alla maturità e così via.

Le antiche civiltà hanno forgiato un’immagine ciclica di continue distruzioni e nuove costruzioni del cosmo.

Il cristianesimo interpreta l’espressione “ultimi giorni” come il tempo del giudizio universale, nel quale Dio, in qualità di giudice, divide il bene dal male e gli uni fa salire in cielo mentre danna gli altri all’inferno.
L’armonia perfetta è rappresentata simbolicamente dalla ricostruzione del paradiso terrestre, una volta eliminato ogni male.

Il Giudizio Universale costituisce il tema della ventesima carta degli “Arcani Maggiori”, nel gioco dei Tarocchi; carta nella quale è raffigurato un angelo che soffia in una tromba al di sopra delle tombe spalancate, dalle quali si ergono uomini nudi.
Si può interpretare come: rinnovamento, ringiovanimento, giudizio, desiderio di immortalità.

E intanto, Martina continua a disegnare:

“Mi sembra, a volte, che creare sia un tentativo di far cessare la malinconia.”

In realtà il disegno per lei è un modo per sentir meno dolore, ma anche per tentare di ricostruire un nuovo mondo, dopo che il paradiso originario è andato perduto.

E così una Martina molto femminile, e forse per la prima volta in gonna mi dice di aver conosciuto Daniele e di essersi innamorata.

“Sto bene con Daniele, non ho più paura, ma spesso, molto spesso, penso ancora che prima era meglio, tutto ciò che ho non sarà più come prima, il paradiso è perduto per sempre.”

Riconoscendo l’ineluttabilità della perdita, l’irripetibilità del passato, si organizza lo sfondo sul quale si staglia l’identità, ma le connotazioni di solitudine e di abbandono, che questo implica, sono difficili da tollerare, anche se colorate di speranza per il futuro.

Come gestire, come far funzionare un rapporto a distanza

“Ti insegnerò a volare e tu mi insegnerai a restare”.
(Preghiera indiana)

Il diffondersi dell’emigrazione giovanile all’estero fa sì che spesso le coppie si trovino a nascere sotto lo stesso cielo, ma a vivere a migliaia di chilometri di distanza, oppure che si incontrino in un luogo del pianeta ma abbiano radici altrove, in altri paesi con usi e costumi diversi.
Comunque si compongano queste relazioni a distanza lasciano un senso di malinconia, di assenza, di vuoto e sembrano non poter mettere radici in nessun terreno.

Spesso l’inquietudine, come male dell’anima più che come necessità di lavoro, spinge a intraprendere l’avventura del trasferimento all’estero, e le personalità di chi sceglie l’altrove sono tendenzialmente in conflitto tra libertà e “voglia di casa”, e questo ovviamente rende più difficile l’evoluzione di ogni relazione.

Però il viaggio e il conseguente trasferirsi all’estero è anche segno di evoluzione, di scoperta, è un impulso che abita l’uomo dalla notte dei tempi, da quando Ulisse lasciò Penelope, ma peregrinò anni con la ferma volontà di ritornare da lei.
Come fare allora per coniugare il “restare” con “l’andare”?

La paura di essere abbandonati, e di dover soffrire per questo, fa sì che ci si aggrappi all’altro con il terrore che l’amore ci sfugga e che il rapporto non regga alla lontananza. Se lui o lei non risponde al cellulare ci si sente perduti.
“Ecco è di nuovo sparito, è tutto finito!”

Ovviamente questo amore, che potremmo definire “liquido”, ha forti componenti di incertezza e la perdita e l’abbandono sono in agguato.
D’altra parte il viaggio che è stato intrapreso è stato dettato da una inquietudine dell’anima che spinge ad andare “oltre”, ma anche a scoprire che la perdita dell’amato è una delle tante prove della vita con cui dobbiamo fare i conti.

Per amare e vivere pienamente occorre imparare a rimanere nella tensione tra l’aggrapparsi ansiosamente e il deporre l’aspettativa, e quale migliore palestra per sperimentare questo trade-off, che essere coinvolti in un amore a distanza?

Nel gestire una relazione a distanza si sperimenta proprio quella inevitabile accettazione del vuoto, che non si sperimenta nel rapporto stanziale, in cui l’altro è sempre presente e si può evitare l’assenza.
Ma proprio perché si è sempre vicini si rischia la perdita di individualità, che è poi la premessa della fine di ogni rapporto evolutivo e, a volte, della separazione definitiva.

“Non è venuto il tempo, che amando, noi si giunga a liberarci dall’adorato oggetto, in un fremente impeto di vittoria, come la freccia che raccolta e tesa entro il suo scocco, supera la corda? Inerzia, è nulla”. (Rainer Maria Rilke)

D’altra parte il sentiero che Jung chiama “processo di individuazione” non è altro che l’accettazione della “nostra interezza” e della nostra precarietà.
Imparare come gestire la relazione a distanza permette di imparare ad attendere e ad ascoltare quel che giunge dal silenzio, invece di aspettarci risposte assolute e falsamente rassicuranti.

Il processo di individuazione, per mezzo del quale si diventa persona aperta all’interezza dell’essere, esige la resa dei desideri che limitano l’esistenza, e parte di questa resa è la rinuncia alla fuga dalla sofferenza.
Accettando la sofferenza insita nel senso di abbandono, che spesso avviene in un rapporto dove l’altro è a centinaia di chilometri di distanza, e accettando anche la precarietà che inevitabilmente viviamo in un rapporto dove l’altro non è controllabile, forse possiamo costruire un rapporto più adulto, più maturo e responsabile.

Se è vero che nelle relazioni a distanza è necessario imparare a lasciar andare l’altro, contemporaneamente bisogna però imparare a “restare”, mantenendo sempre vivo il rapporto e il dialogo.
Mi piace prendere ad esempio dell’amore liquido il fiore di loto, che pur avendo radici si muove accogliendo il vento e facendosi trasportare sull’acqua.

Per imparare a restare occorre non soccombere alle tempeste dell’ultima sera. Accade spesso, che proprio per evitare la sofferenza del distacco, l’ultima sera si litighi esasperando tutte le differenze, che inevitabilmente esistono, anzi che devono esistere. Nel rinfacciarsi tutte le differenze tra lacrime e silenzi si decide che è meglio lasciarsi.

“Non possiamo andare avanti così, siamo troppo diversi”.
Forse non ci si lascerà, non almeno quella volta lì, ma il rapporto rimarrà incrinato e ricucirlo sarà impresa faticosa.
In questo tentativo di riavvicinamento la tecnologia ora gioca un ruolo importante, infatti il contatto con Skype ci consente di cortocircuitare le distanze, portando con sé anche l’oggettivo vantaggio di non farci condividere la, a volte, piatta e banale quotidianità.

Occorre comunque aver la consapevolezza che questa è solo una fase della propria vita.
Ogni esperienza e ogni avventura hanno un termine, anche gli eroi alla fine tornano a casa… Ulisse dopo lungo peregrinare si ricongiunge alla moglie Penelope.

Come far funzionare un rapporto a distanza, consigli…

Elaborare un progetto di coppia e darsi soprattutto delle scadenze temporali, entro le quali far terminare la lontananza fisica, sono il segreto per mantenere vivo il rapporto e lasciare che si strutturino radici in una realtà virtuale, che rendono la lontananza e la solitudine più accettabili e rassicuranti.

Relazioni a distanza: contatta la dott.ssa

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Come preparare un matrimonio?

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Nei mesi precedenti al matrimonio si organizza ogni cosa, il vestito bianco è una nuvola vaporosa ed è stato provato infinite volte, le bomboniere sono pronte con i candidi confetti, i vestiti delle damigelle sono in linea con i colori e le luci, e una splendida tavola ricca di fiori e cibi aspetta gli invitati.

Tutto ciò che è materiale è organizzato per un matrimonio da sogno ma, e soprattutto se non ci si sposa con rito religioso, gli aspetti spirituali e simbolici di un’unione tra un uomo e una donna vengono trascurati. Inoltre tutti i preparativi frenetici precedenti al matrimonio fanno perdere spesso il senso dell’incontro, e si rimane orfani di quella “romantica storia” che aveva fatto incontrare i due innamorati.

Ogni coppia ha le sue fragilità e le sue forze, ma queste spesso sono ignorate, e non essendo un loro patrimonio non costituiscono una esperienza per il futuro.
La forza è data dalla carica ideale piuttosto viva durante l’innamoramento, in quel momento l’amante si trasfigura agli occhi dell’amato e idealizza i lati della propria personalità che l’altro mostra di apprezzare.

Questo processo, che si chiama idealizzazione, è l’ossatura di una storia che può crescere e diventare un romanzo o al contrario si può perdere sino a smarrirne la trama.
La debolezza invece è data dalla mancanza di consapevolezza e da tutte quelle pressioni esterne che trovano la coppia impreparata. Gli impegni pratici e le tristi incombenze della vita quotidiana fanno smarrire la voglia di immaginare, di sognare e di costruire il nostro romanzo.

«Se il carattere di una persona è una complessità di immagini, allora per conoscerti devo immaginarti, assorbire le tue immagini. Per mantenermi in contatto con te, devo mantenere un interesse immaginativo non per il processo del nostro rapporto o per i miei sentimenti nei tuoi confronti, ma per le immagini che ho di te. Il contatto attraverso l’immaginazione produce un’intimità straordinaria. Quando l’immaginazione si concentra intensamente sul carattere dell’altro… l’amore segue presto. Può ben darsi che i rapporti umani traggano beneficio della ripetuta esortazione ad amarsi l’un l’altro, ma perché un rapporto continui a vivere, l’amore da solo non basta. Senza l’immaginazione, l’amore ammuffisce in sentimentalismo, dovere, noia. I rapporti falliscono non perché abbiamo smesso di amare, ma perché, prima ancora, abbiamo smesso di immaginare».


(James Hillman, “La forza del carattere”, p. 255)

Molte coppie aspettano che il loro matrimonio sia in crisi prima di ricorrere a un aiuto esterno, ma a quel punto spesso i fragili elementi che costituivano il “mito”, che sempre sta dietro a due anime, sono già andati dispersi.
Nel frattempo spesso non si è più in due. Sono arrivati dei bambini e a quel punto la “storia” cambia ed è necessario immaginare se stessi e l’altro in una maniera nuova.Lavoro da vent’anni con coppie in crisi e penso che un’azione preventiva sia necessaria, vista anche la nascita di nuove relazioni, matrimoni gay, matrimoni tra coppie di diverse religioni, famiglie allargate.Per questo propongo un corso prematrimoniale laico a Milano e Genova che ha come come obiettivo una preparazione al matrimonio “personalizzata”, che va alla scoperta o al recupero della storia che ha permesso agli amanti di incontrarsi e di stabilire un’unione profonda.

Corso prematrimoniale laico a Milano, Genova: unioni gay e coppie miste

Se il percorso prematrimoniale laico è utile per la coppia eterosessuale ancora più utile è alle coppie gay o alle coppie miste, magari di religioni diverse, dove tutto è ancora da inventare, e sicuramente è più facile costruire, creare e inventare quando si parte da una storia immaginata e condivisa da entrambi i partner.Il corso al matrimonio laico rinforza e arricchisce la relazione di coppia attingendo all’immaginario, lavorando sul materiale simbolico che ha fatto sì che la coppia si sia scelta.Il percorso prematrimoniale laico è interconfessionale, interculturale e interrazziale.
Serve a facilitare la comunicazione, chiarire gli obiettivi comuni e a preparare ad un futuro felice matrimonio, e si avvale del patrimonio simbolico che esiste in una storia d’amore.

Quali sono gli obiettivi di un percorso laico al matrimonio?

  • Abituarsi a risolvere conflitti efficacemente e rispettosamente.
  • Mantenere viva la “chimica” della coppia andando a lavorare proprio su quelle immagini che la costituiscono e scavare più a fondo la relazione di amicizia.
  • Individuare, capire e accettare il punto di vista dell’altro partendo dal terreno comune per cui ci si è scelti, ampliando i contenuti e i valori condivisi che tanto più sono preziosi se i membri della coppia appartengono a religioni diverse.
  • Imparare a gestire gli inevitabili distacchi di due individui che pur scegliendo di unirsi non dipendono l’uno dall’altro e devono imparare a dividersi, di modo che si possa creare un legame più forte e di maggiore solidarietà.
  • Individuare le giuste distanze tra la nuova famiglia che si viene a costituire e le famiglie di origine dei partner.
  • Farsi carico della conduzione di una famiglia allargata figlia di un secondo matrimonio e delle tensioni che da questa situazione provengono.

Il corso prematrimoniale laico consta di 5 incontri di coppia

Nevrosi Ossessiva: Silvia e le porte che non si aprono

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Durante il quarto anno del nostro lavoro assieme Silvia inizia a veder sparire molte delle sue manifestazioni psicosomatiche.

Rimangono però l’asma e forti riniti.

“Per la prima volta in questi giorni mi sono sentita bene nel mio corpo.
Senza paura e senza angoscia.
Per tutta la vita ho dovuto pensare al mio corpo per non andare in pezzi.
Lei mi ha aiutato a capire che ho un corpo tutto mio.”

Silvia era venuta da me perché soffriva di invalidanti allergie, causate da ogni tipo di profumo, ma nel contempo stesso era costretta a lavarsi in continuazione per cancellare i cattivi odori che riteneva di emanare.

“L’odore più disgustoso è l’odore di pesce.”
diceva Silvia.

L’olfatto, è dei cinque sensi quello che ci mette in contatto con la realtà nel modo più intimo e profondo, in quanto ha meno legami con una visione mediata ragionata del mondo, le sensazioni olfattive rimangono in noi solo a un livello inconscio.

La natura “inconsapevole” dell’odorare fa sì che esso giochi un peso notevole nell’ambito delle emozioni, i profumi e gli odori diventano parte della nostra percezione del mondo e possono riassumere in un’unica sensazione un’intera situazione ambientale, e veicolarci sensazioni e ricordi legati a quel esperienza.

Lavorando su se stessa, partendo dalla “puzza” e procedendo a estesi scavi “psico-archeologici”, tra le rovine del suo mondo sotterraneo, attraverso le sensazioni fisiche e le memorie corporee, attraverso il materiale onirico che contiene molti intrecci e molte storie, Silvia ha scoperto la sua storia personale.

Intrecciando assieme esperienze corporee e esperienze vissute, Silvia aveva sviluppato una sua personale separazione del bene dal male, ciò che era buono emanava buon odore, ciò che era cattivo emanava cattivo odore e quindi per sentirsi buona era necessario essere pulita, cioè ben lavata.

Il corpo di Silvia che come ogni corpo vivo è destinato ad emanare cattivo odore era vissuto da lei come un nemico, che può sorprendere in qualsiasi momento.
Il suo corpo poteva ammalarsi, poteva sudare o emanare cattivi odori, poteva tradirla, insomma, e quindi lavandosi sempre lei combatteva tutti i sentimenti negativi che potevano albergare in lei.

Nel lavoro con Silvia è stato importante trovare una storia individuale che ci ha fatto da bussola nelle acque profonde dell’inconscio.
Contemporaneamente abbiamo anche trovato una storia comune all’umanità, che ci ha permesso di intuire una possibile soluzione che ha allentato la paura e ha aperto finestre sul muro chiuso.

Esisteva un tempo, un gigante con un debole per le donne, un uomo noto con il nome di Barbablù.
Si diceva che corteggiasse tre sorelle contemporaneamente.

Le sorelle erano spaventate dalla barba blù di quest’uomo, e così si nascondevano quando le chiamava.
Nel tentativo di convincerle della sua mitezza egli le invitò ad una passeggiata nel bosco. Arrivò con cavalli ornati di campanelli e nastri cremisi: sistemò le sorelle e la loro madre sui cavalli, e al piccolo trotto si avviarono nel bosco.

Fecero una stupenda cavalcata, con i cani che correvano accanto e davanti a loro; poi si fermarono sotto ad un albero e Barbablù le intrattenne narrando storie e offrì loro leccornie.
Le sorelle cominciarono a pensare:
Insomma, questo Barbablù forse non è poi tanto cattivo
Tornarono a casa e non finivano più di parlare di quella giornata così interessante, di quanto si fossero divertite…

Ma riaffiorarono i sospetti ed i timori nelle due sorelle maggiori, ed esse giurarono di non rivedere mai più Barbablù.
La più piccola pensò che se un uomo poteva essere tanto affascinate, allora forse non era neanche così cattivo…
Più rimuginava tra se e meno le sembrava terribile, e anche la barba le pareva meno blu. Così quando Barbablù chiese la sua mano, lei accettò.

Aveva accolto con orgoglio la proposta di matrimonio, e pensava di sposare un uomo molto elegante.
Si sposarono e poi andarono al suo castello tra i boschi.
Un giorno andò da lei e le disse:

Devo andare via per qualche giorno. Invita qui la tua famiglia, se ti fa piacere. Potete cavalcare nei boschi, ordinare ai cuochi di preparare un banchetto, potrai fare tutto quel che il tuo cuore desidera.
Ecco il mio mazzo di chiavi: puoi aprire tutte le porte dei magazzini e delle stanze del tesoro, qualunque porta del castello. Ma non usare questa piccola chiave con la spirale in cima.

Lei rispose:

Si, farò come dici. Mi sembra bellissimo. Vai mio caro marito, e non preoccuparti e torna presto
    “.

Così lui partì e lei rimase.
Le sorelle andarono a trovarla, e come tutte le donne, erano curiose di conoscere le istruzioni che le aveva lasciato padrone per la sua assenza, e gaiamente la sposina raccontò ogni cosa:

Ha detto che possiamo fare tutto ciò che vogliamo, tranne che entrare in una stanza la cui porta si apre con questa chiave.

Le sorelle decisero di fare il gioco di trovare la porta a cui apparteneva la piccola chiave: il castello era di tre piani, con un centinaio di porte in ogni ala, e si divertirono immensamente a passare da una stanza all’altra: dietro ad una porta c’erano le dispense, dietro un’altra i depositi delle monete …
In ogni stanza c’erano beni d’ogni sorta, e ogni volta sembrava tutto meraviglioso.

Alla fine arrivarono alla cantina. Si scervellarono sull’ultima chiave, quella della stanza proibita. “Forse non apre nessuna porta!“, e proprio mentre lo dicevano udirono uno strano rumore e videro dietro l’angolo più oscuro una porticina che si richiudeva.
Invano tentarono di riaprirla, era sprangata.
Una allora gridò: “Sorella! Sorella porta il mazzo: deve essere questa la porta della piccola chiave!“.
Senza rifletterci su infilò la chiave nella serratura e la girò facendola scattare.

La porta si spalancò nell’oscurità, accesero una candela per poter vedere finalmente cosa fosse celato nella misteriosa stanza, con un grido di orrore si accorsero che l’ambiente era un lago di sangue, con ossa umane sparse ovunque, e agli angoli erano impilati i teschi come piramidi di mele.
Richiusero velocemente la porta, sfilarono la chiave, e si strinsero l’una all’altra, tremanti e invocando il Signore.
La giovane sposa guardò allora la chiave e s’avvide che era macchiata di sangue: tentò di pulirla sfregandola sulla gonna, ma il sangue restava.

Terrorizzate tentarono a loro volta le altre, ma non c’era verso di farla tornare come prima. La giovinetta la mise in tasca e corse in cucina per sfregarla con uno strofinaccio, e mentre si avviava la chiave cominciò a grondare sangue macchiandole l’abito bianco.
La strofinò, il sangue continuava a colare; provò con la cenere, poi con il fuoco e con le ragnatele, ma niente fermava il flusso rosso.
Infine, disperata, decise di nasconderla nell’armadio, togliendola dal mazzo.

La mattina dopo il marito tornò al castello e chiamo la sposa per interrogarla.

Com’è andata durante la mia assenza?
    • ” chiese.

    •  “
Bene, signore
    • “.

Come sono i miei depositi?
    • ” tuonò.

    •  “
Davvero molto belli, signore
    • “.

E le stanze del tesoro?
    • ” ringhiò.

    •  “
Bellissime signore
    • “.

Dunque è andato tutto bene moglie?
    • “.

    •  “
Si, tutto bene
    • “.

Allora
    • “, sussurrò, “
allora sarà meglio che tu mi renda le chiavi
    “.

Appena ebbe il mazzo in mano con un’occhiata si accorse che mancava una chiave, e gridò: “Che hai fatto della chiave più piccola che ti avevo raccomandato di non usare?
Lei balbettando si giustificò: -“Io… ecco io… Io l’ho perduta andando a cavallo“.

Gli occhi furenti di Barbablù l’incenerivano: -“Come l’hai persa? Dove?
E lei ancora tentava di farsi scusare: -“L’ho persa a cavallo… Non ricordo dove… Non so come…
Non mentirmi, dimmi che ne hai fatto!” Gridava mentre l’afferrava per i capelli, e urlando la gettò a terra: -“Infedele! tu sei entrata in quella stanza!“.
Aprì l’armadio e trovò gli abiti insanguinati dalla chiave posata sul ripiano.

La guardò con occhi di brace, e la trascinò giù in cantina ghignando: -“Adesso tocca a te mia giovane sposina!“.
E al suo cospetto la porta della spaventosa stanza si spalancò mostrando gli scheletri delle mogli precedenti.
La giovane si aggrappava alla porta implorando -“Concedimi almeno di raccomandare l’anima a Dio! Ti supplico…“.
Lui la guardò e le concesse questa supplica: -“Prega, e fatti trovare pronta a morire tra un quarto d’ora“.
La ragazza corse sulle scale per mandare le sorelle sui bastioni del castello a chiamare aiuto, e mentre inginocchiata fingeva di pregare, le interrogava:

Sorelle, arrivano in soccorso i nostri fratelli?
    • “.

    •   “
Ancora no, ancora no purtroppo!
    • “.

Arrivano i nostri fratelli?
    • ” continuava a domandare.

    •   “
Finalmente! In lontananza si vede un polverone: saranno certamente loro!
    “.

Intanto Barbablù chiamava a gran voce la moglie dalla cantina, dove l’aspettava per decapitarla mentre lei scendeva lentamente chiedendo notizie dei suoi salvatori, lui saliva a grandi passi i gradini di pietra urlando: -“Vengo a prenderti!“.
Quando fu prossimo alla stanza della moglie, i fratelli varcarono la soglia del castello, giungendo nella camera della sposa proprio nel momento in cui Barbablù stava per afferrarla, e con le spade sguainate si avventarono su di lui uccidendolo e facendolo a pezzi.

Scrive Clarissa Pinkola Estés.

All’interno della psiche esiste un aspetto innato, contra naturam.
La forza “contro natura” si oppone al positivo: è contro lo sviluppo, l’armonia e il selvaggio. È un antagonista derisorio e sanguinario che nasce in noi, e anche con il miglior nutrimento parentale l’unico compito dell’intruso è il tentativo di trasformare ogni crocevia in strade senza uscita.

Per Silvia questa forza contro natura, che potremmo definire “il male” è inconscia e naturalmente puzza.

“Non posso andare in ospedale quell’odore mi fa star male”
“I matti hanno cattivo odore e i tossicodipendenti puzzano di zucchero”

Attraverso l’olfatto ella intuisce le forze oscure che abitano la nostra psiche, ma non vuole accoglierle dentro di sè.

A volte l’educazione non spiega alle ragazze giovani che il mondo interiore e quello esterno non sono sempre luoghi spensierati e le lascia ignoranti degli aspetti delittuosi della psiche.

Silvia nei suoi sogni non riesce ad aprire le porte ed è sempre in fuga dall’uomo nero, che prende aspetti animaleschi e naturalmente puzza.
La sua anima non riesce a manifestarsi, si nasconde sottoterra, e ogni tanto fa capolino per vedere se l’ombra dell’uomo nero si è allontanata.

Poi un giorno finalmente questo sogno:

Ero con la mia amica eravamo in una specie di palazzo o città con delle mura, dei cortili interni.
Dovevamo recarci nel piano superiore per raggiungere una porta ma un vento ci spingeva in senso contrario e non riuscivamo a raggiungere tale porta situata in alto.
Siamo così tornate indietro e siamo risalite in senso orario, nessun vento è apparso ed abbiamo raggiunto la porta senza problemi.

Finalmente grazie alla collaborazione dell’amica (psicologa) Silvia riesce ad aprire la porta; come le sorelle nella fiaba una marcata sensibilità alle puzze e ai profumi l’ha spinta ad occuparsi più di quanto si dovrebbe del “cattivo” e questo le ha permesso di aprire la porta della stanza del mistero.

Un po’ le sue esperienze familiari, un po’ le forme educative avevano impedito a Silvia di aprire la porta della stanza segreta, inibendo il suo naturale istinto alla curiosità e alla scoperta di “quello che sta sotto“.

Ella aveva obbedito all’ordine di barbablù di non usare la chiave e aveva scelto la morte spirituale, disobbedendo all’ordine e sviluppando consapevolezza ha scelto la vita.

Illustrazione di Alessandra Psacharopulo

Federico e l’omosessualità

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Federico è un giovane omosessuale mandato dal padre da una “buona psicologa“, perché secondo la sua famiglia era necessaria una “guarigione“.

Nell’estate, durante una chiassosa cena di famiglia, il ragazzo aveva rivelato ai suoi familiari di essere gay, dopo la confessione la festa era stata rovinata, e la vita familiare era precipitata in un silenzio totale. Tutti avevano smesso di parlargli e si aggiravano attorno a lui imbarazzati, come se un estraneo si fosse materializzato tra la poltrona e il divano del salotto.

Federico ha accettato l’imposizione paterna e si è presentato nel mio studio trincerato e difeso, ma anche stupito di un atteggiamento che riteneva non consono alla sua famiglia.
I suoi genitori erano liberali e tolleranti, e lui non riusciva proprio a spiegarsi simile atteggiamento.

Tutti noi oggi sappiamo che in ogni individuo sono presenti, sia biologicamente che psicologicamente, aspetti maschili e femminili, ma nei confronti dell’omosessualità permane un inspiegabile rifiuto. Inoltre a volte siamo disposti ad accettare razionalmente molte cose, ma quando la diversità va a toccare la sfera dei nostri affetti tendiamo a rifiutarla ritenendola portatrice di disagio.

L’ambivalenza sessuale è inscritta nel corpo di ogni individuo, il maschile e il femminile sono presenti nella nostra psiche, in questo senso Jung parlava di animus e anima.; ma un pregiudizio inconscio permane dentro di noi e ogni ambivalenza sessuale viene rimossa.

Ciò avviene perché l’ambivalenza crea timore e paura e si tende ad allontanarla da sé; da sempre l’uomo si è dato delle leggi per dominare la natura circostante, e per fare ciò ha dovuto separare in categorie il reale, alimentando di conseguenza giudizi e pregiudizi.
Dividere i sessi in due categorie, rende possibile un ordine sociale, allontana il caos che potrebbe introdursi nelle nostre vite destabilizzandoci.

Il termine omosessualità non esisteva nella Grecia antica e neppure tra i Romani, in quel periodo storico era l’amore tra persone il fattore più importante, e questo trascendeva l’omosessualità, già Platone avanzava l’ipotesi, che la legge e non la natura discriminasse l’omosessualità.

Nella letteratura islamica sufi la relazione omosessuale si elevava a metafora della relazione spirituale tra l’uomo e dio. L’amore dell’Imperatore Adriano per Antinoo fu ricco di estetica, cultura e spiritualità, ad Antinoo fu dedicato un oracolo a Mantinea, decretati giochi ad Atene, ad Eleusi, e ad Argo.

Fu nell’ottocento con il nascere della medicina scientifica, che l’omosessualità divenne “patologia” e rubricata tra le per-versioni; e durante il Nazismo, gli omosessuali furono oggetto di persecuzione unitamente agli ebrei, agli zingari, agli handicappati e ai menomati psichici.

Fino all’edizione del 1968 nel DSM, manuale ad uso di psicologi e psichiatri dove si trovano le linee guida attraverso le quali si può stabilire la presenza o meno di un disturbo mentale, l’omosessualità era inserita all’interno della categoria “altri disturbi mentali non psicotici” assieme alla pedofilia, alla necrofilia, al feticismo, al voyeurismo e al transessualismo.
fu nel 1973 che si rimosse l’omosessualità “ego sintonica” dalla lista dei disturbi psicosessuali, dal momento che questo tipo di omosessualità non implicava affatto un deterioramento nel giudizio, nell’adattamento e nelle generali abilità sociali dell’individuo.

 

L’omosessualità oggi

Attualmente assistiamo ad un’apparente accettazione sociale dell’omosessualità, ma il rifiuto è ancora nell’aria e l’accettazione è solo parziale. Ciò porta l’omosessuale a rispondere reattivamente al sociale giudicante e ad esasperare la sessualità, che diventa la dimensione fondante nell’individuo omosessuale.

In realtà la sessualità non è la dimensione fondante dell’essere umano, e quindi neanche dell’omosessuale. L’essere umano si lega ad un altro essere per una attrazione che prima di tutto è emotiva ed intellettuale, e in un secondo tempo sessuale. Lo stesso vale anche per l’omosessualità, non è dal sesso, infatti, che bisogna partire per capire qualcosa della condizione omosessuale. Essa non è altro che un’espressione tra le tante in cui l’affettività umana può esprimersi.

L’omosessualità è una condizione esistenziale con contenuti di affettività,progettualità e di relazione. È una variante del comportamento umano che si connota con il desiderio di amare, desiderare, costruire e identificarsi con persone dello stesso sesso e non esclusivamente con atti sessuali.

Individuarsi è arduo per tutti, ma ben più arduo è per chi vive in un’atmosfera di pesanti pregiudizi e di rappresentazioni sociali, l’omosessuale rischia infatti o di adeguarsi al modello stereotipato del Gay o di reagire reattivamente ed aggressivamente al mondo.

 

Il caso di Federico

Federico, non ha voluto rispondere reattivamente al contesto sociale in cui viveva, e non ha voluto neanche diventare una controfigura di se stesso, ha cercato di “ritrovar se stesso” e ha provato a farlo, con fatica, durante il percorso dell’analisi. Ha tollerato il silenzio della sua famiglia, ma ha anche voluto lavorare sulla sua identità cercando di non conformarsi a ciò che gli richiedeva la società.
Certo non è “guarito” come voleva la sua famiglia, ma la sua forza e determinazione, ha fatto sì che i toni del confronto si smussassero. La sua famiglia ha potuto conoscerlo, nella misura in cui lui andava conoscendosi, e piano piano è ritornata a “vederlo” cambiato ma in fondo sempre “non guarito“.

Insieme siamo partiti dalla sua omosessualità, dal suo amore per gli “uomini” e siamo andati verso l’espressione dell’affettività verso un altro essere umano.

Federico non chiedeva di essere curato ma chiedeva di essere ciò che era e di poter iniziare a costruire, senza essere obbligato a fare sogni non propri o ad adeguarsi a forme di vita che sentiva estranee.

Come abbiamo accennato all’inizio, l’omosessuale è vissuto come un pericolo per l’ordine sociale in quanto rende impossibile la divisione in categorie distinte, l’omosessualità ci ricorda che non è tutto ben definito, che io posso essere te e tu puoi essere me, che io sono donna ma posso anche essere uomo e viceversa.
La confusione dei codici non consente la creazione di una società ordinata.

Quello che si teme e che si tenta di allontanare è il disordine, la confusione, che in fondo ci farebbe veramente scivolare nell’indifferenziato.

Bisessuali erano le divinità indiane Dyaus e Parusa, egiziane come il dio Bes, greche come Dioniso, Attis, Adone.

A differenza dell’uomo il dio può rappresentare l’unità primordiale di cui la bi-sessualità è un’espressione, unità primordiale che va però mantenuta circoscritta nella sfera del sacro.
Quando Dionisio entra nella città, ci racconta Euripide nelle Baccanti, tutto l’ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata. È il disordine del non senso che entra in città, è il caos della psicosi.

In realtà l’omosessualità ci offre l’opportunità di non irrigidirci per paura in definizioni, che trascurano l’affettivo.

La dea Ecate vive negli inferi, è la signora degli incantesimi, “la dea dei fantasmi e dei terrori notturni, degli spettri e dei mostri spaventosi“.
Al tempo stesso, osserva, Ecate

“Presiede alla stagione della semina e al parto; assicura prosperità, vittoria, messi generose al contadino e abbondanza di pesce al pescatore”.

Ecate incarna archetipi contraddittori, ma diventa il simbolo dell’inconscio, luogo dove brulicano bestie e mostri. Non è la psicosi, non è il caos ma è un bacino di energia su cui si deve ottenere il controllo, proprio come Caos fu portato all’ordine cosmico grazie all’influenza dello spirito.

L’omosessualità e il disordine che apparentemente crea può essere come la metafora di una nuova energia, di una possibilità di non fermarsi ad un unico colore ma di poter cogliere le sfumature.

Ozpetek intitola il suo ultimo film “Mine vaganti“, i critici tendono ad attribuire il titolo all’outing che il protagonista fa durante una cena di famiglia, contesto, tra l’altro, simile all’episodio di Federico. Ma in realtà credo che Oztepek volesse affermare che l’omosessualità può far scoppiare di energia nuova contesti e situazioni e che in parte è energia per il futuro.

Credo che il titolo del film significhi che questo materiale esplosivo insito nell’omosessualità possa essere, se rifiutato, fonte di dolore e di disagio, se invece accolto può trasformarsi in qualcosa d’altro, in qualcosa di nuovo. Ignorare o escludere dalla nostra realtà il problema trasformerà lo stesso in una mina vagante.

“Nulla determina chi saremo quanto ciò che scegliamo di ignorare”
Sandor McNab